la prima pagine dell

Il dovere per il dovere

Kant, dalla conoscenza all'etica

Pubblicato su Tracce n. 12/1998, pp. 62-3.

Lo scivolamento etico nel pensiero kantiano, crocevia della filosofia occidentale. La rinuncia a conoscere la realtà così come è, cioè all'ontologia, e il moralismo della legge che governa tutti i rapporti.

Come molti sapranno, Kant è un crocevia della filosofia occidentale: verso di lui convergono le direttrici principali della filosofia moderna (quelle di fatto egemoni, almeno), e da lui si dipartono le principali diramazioni della filosofia contemporanea. La quale, in gran parte, accetterà quello che è l'essenziale della impostazione di Kant: la tesi che sia impossibile per il pensiero umano "adeguarsi", sottomettersi, a un dato reale che lo precede e lo misura. L'idea quindi che non ci sia verità come conformità del pensiero (umano) all'essere, alle cose, alla realtà oggettiva. Dopo la sua operazione filosofica, come lo stesso Kant orgogliosamente annunciava, non sarebbe più stato il soggetto a ruotare intorno all'oggetto, cercando di capirne le ragioni e di adeguarsi alle sue leggi, ma l'oggetto sarebbe ruotato intorno al soggetto, adattandosi alle regole che il soggetto stesso gli avrebbe imposto: è questa la "rivoluzione copernicana" di Kant.

L'assenza di certezza ontologica

È vero che della "rivoluzione copernicana" si possono dare diverse interpretazioni. Si può anche vederla come accettazione del limite della conoscenza umana, che filtrando inevitabilmente gli oggetti attraverso le proprie strutture risulta incapace di cogliere la realtà in sé, ossia la verità assoluta; in questo senso la filosofia di Kant esprimerebbe la sofferta rassegnazione all'impossibilità di accedere a un assoluto di verità. Ma è ancora più vero vedere la "rivoluzione copernicana" come espressione di una volontà di non-dipendenza dall'oggettivo; come espressione del potere, in qualche modo creativo, del soggetto: per cui non è fondamentale il fatto che le cose-in-sé restino sempre al-di-là, ma il fatto che il fenomeno conosciuto sia essenzialmente plasmato dal soggetto. Il soggetto pertanto non ha più il compito di riconoscere un dato, ma attivamente forgia questo dato, conferendogli le sue forme a-priori, le sue strutture conoscitive. La parte del leone insomma non la fa la cosa-in-sé, che si limita a fornire al fenomeno una informe e malleabile materia, ma il soggetto conoscente, che organizza e struttura tale materia dentro le proprie forme (le "intuizioni pure" e le "categorie"). Se quindi non si può negare che in Kant alberghi una residua onestà nel riconoscere che il desiderio che anima la ragione è conoscere la realtà in sé, la verità assoluta, che è oltre il fenomeno scientificamente indagabile; resta, altrettanto e ancor più presente, la preconcetta e trionfante esultanza di aver "liberato" l'umanità dal giogo di una sottomissione all'oggettivo (e qui la dice lunga la sua posizione, di saccente disprezzo, nei confronti della Chiesa e di Cristo). Il fatto è che a Kant sfuggiva come fosse contraddittorio aspirare alla verità senza piegarsi alla Verità (del Mistero): un assoluto senza l'Assoluto, così potremmo sintetizzare l'irrealizzabile aspirazione dell'asceta laico di Königsberg.

La spietata, arbitraria tirannide della legge

Se è impossibile alla ragione umana adeguarsi all'oggettivo, impossibile risulta pure l'ontologia (=la metafisica), la verità (assoluta); la conoscenza è sempre e solo conoscenza di fenomeni, dietro i quali si cela, come "una X misteriosa", la vera realtà, la "cosa-in-sé". Su che cosa si baserà allora l'uomo per sapere che cosa è bene e cosa è male? L'agire umano non si baserà più sull'ontologico, sull'oggettivo, ma su una legge morale che ricava solo dalla propria soggettività. Ogni uomo infatti ha in sé questa legge morale che gli comanda di essere obbedita. L'uomo non se ne può dare una ragione, ma sente che c'è e che va seguita, come un dovere assoluto. Kant celebra così il trionfo dell'etica sull'ontologia, di un etica sciolta dalla oggettività dell'ontologia. Soffermiamoci su due aspetti di questo: 1) per sapere quale sia il comportamento giusto da una parte Kant esclude il criterio della felicità, 2) dall'altra fissa delle regole la cui genericità apre a una riduzione della tensione etica dentro una misura gretta e ripiegata su di sé.

1) La felicità viene esclusa, abbiamo detto, come criterio etico: non ci si deve chiedere se agire in un certo modo ci renderà felici. Ciò secondo Kant immeschinerebbe la motivazione dell'agire, che deve mirare unicamente a ottemperare alla legge morale, che ci si impone: la formula è «fa così perché devi» (imperativo categorico). Per i filosofi precedenti invece la formula era «fa così se vuoi essere felice», ossia se vuoi attuarti. Presupposto ciò posso sapere chi sono, e impostare sulla base di ciò (di un ontologico) l'etica: agisco moralmente per attuare ciò che sono; la felicità c'entra con l'etica perché è il riverbero emotivo-affettivo di una realizzazione (ontologica) raggiunta. In Kant ciò è totalmente saltato: noi non sappiamo chi siamo, né ci è possibile saperlo (anche l'uomo è una «cosa-in-sé», e come ogni cosa-in-sé non è conoscibile, né tanto né poco). L'unico punto fermo di un uomo, che non sa che cosa sia (ontologicamente) né il mondo né lui stesso, è la legge morale. Non si dovrà seguirla per essere felici, né per realizzarsi, ma solo per dovere, incondizionatamente.

2) Questa impostazione kantiana potrebbe sembrare la teorizzazione di un agire morale totalmente disinteressato. Ma che non sia così lo vediamo nel momento in cui Kant parla dei contenuti concreti della legge morale. Kant non dice quale sia il contenuto della legge, ossia che cosa, concretamente, sia il bene. Fornisce delle regole (tre "massime") volutamente generiche. In sostanza si tratta di tenere come criteri un vago senso di rispetto per "l'umanità che è nell'altro" (non trattandola come mezzo, ma come fine) e l'idea che è giusto quel comportamento che è universalizzabile (insomma, quello che, se adottato da tutti, consentirebbe alla società di "girare" al meglio). Kant non ritiene quindi si possa indicare nessun contenuto morale intrinsecamente buono. Questo finisce col rendere il soggetto umano (non il singolo individuo, ma la collettività) arbitro della moralità, oltre che suo schiavo: è vero che l'istanza morale è dentro ogni uomo come qualcosa di strutturato (e che vincola, senza motivo adeguato, la volontà umana), ma di fatto la decodificazione della legge morale risulterà inevitabilmente riduttiva. Ne è segno evidente il vero e proprio odio che Kant aveva verso qualsiasi ideale etico che andasse oltre la misura finita del dovere morale: per lui è puro fanatismo la santità cristiana, che non si pone misure. Kant avrebbe coerentemente condannato Madre Teresa, rea di un comportamento fanatico che, se universalizzato, avrebbe incentivato il parassitismo di una parte del genere umano. L'etica sganciata dall'ontologia ci si presenta così, nel suo più lucido teorizzatore: come il rigore inflessibile e freddo di una legge senza volto, fuori da un rapporto personale, che chiede all'uomo di ottemperare in esatta misura ai suoi (limitati e circoscritti, ma rigidi) dettami; niente di meno (la misericordia è estranea a Kant), niente di più (la santità cristiana è per lui diseducativo fanatismo).